12 Agosto 2020

LA PROPOSTA INDECENTE

Di Raffaele Avallone

In un precedente mio scritto ho insistito nel sottolineare che il problema che hanno le aziende non è di natura finanziaria ma economica. Le perdite subite per chiusura forzata non sarebbero mai state recuperate e il giorno in cui avrebbero potuto aprire i battenti esse avrebbero continuato a produrre perdite, difficilmente utili come prima, perché i consumi si sarebbero ridotti, un po’ per paura del contagio, un po’ perché tutti avrebbero avuto la tendenza a spendere di meno. Quindi serviva il bazooka, lo shock che avesse rilanciato l’economia.

Il bazooka è poi arrivato ma era caricato a salve. Come sappiamo il decreto ha solo consentito alle aziende di indebitarsi grazie alle garanzie statali ed ha due veri obiettivi: quello di consentire alle aziende stesse di pagare le tasse arretrate (e future prossime) e quello di evitare il licenziamento dei dipendenti. In questo modo lo Stato potrà continuare ad incassare e non dovrà preoccuparsi di far fronte alla valanga di nuovi disoccupati che la chiusura o anche solo il ridimensionamento delle attività aziendali avrebbe causato. Ma c’è altro.

Ci sono infatti circa 272.000 aziende (fonte Bankitalia) escluse in partenza dai finanziamenti perché segnalate alla centrale rischi a causa di qualche omesso o ritardato pagamento. Tutte le altre (tranne le micro imprese) dovranno invece garantire gli attuali livelli occupazionali, previo accordi sindacali (cioè non dovranno licenziare nessuno). Il che è la prova ulteriore del vero obiettivo del governo che non è quello di aiutare le aziende, ma i loro dipendenti. Naturalmente i soldi non te li regalano, ma vanno restituiti entro un massimo di 6 anni maggiorati di interessi (che deciderà la banca). Caso contrario sarà lo Stato a dover pagare e poi rivalersi sull’azienda, aggredendo il suo patrimonio. Questo significa che se ad essere insolvente è un’azienda che non ha nulla da perdere, sarà lo Stato a rimanere con le pive nel sacco, mentre ad essere insolvente è un’azienda seria e sana e che ha beni da perdere (poverina) lo Stato avvierà ogni azione esecutiva tramite l’Agenzia delle Entrate Riscossione, alias Equitalia, che, lo sappiamo bene, in un battibaleno pignorerà tutto lasciando il povero imprenditore in brache di tela.

Insomma questo decreto non ci piace per tante ragioni. Sappiamo che un’azienda che non produce utili, ma perdite, non otterrebbe mai alcun prestito dalla sua banca, perché non sarebbe in grado di restituirlo. Ed allora ci chiediamo: perché mai lo Stato la spinge ad indebitarsi? Eppure sa bene che senza l’abbattimento dei costi che possa contrastare il calo dei ricavi causato dalla depressione di consumi, nessuna azienda potrà farcela mai.

Sotto diverso profilo ci chiediamo: ma conviene davvero alle aziende oneste e sane indebitarsi, se le previsioni ci dicono che non produrranno utili nel 2020 e forse nemmeno nel 2021? La risposta è no, perché quelle aziende verrebbero probabilmente a trovarsi fra uno o due anni in una situazione peggiore di quella attuale, con molti più debiti e col rischio concreto di perdere anche il proprio patrimonio e forse anche la casa.

Per questo riteniamo il governo colpevole di indurre in tentazione le aziende, incoraggiandole ad indebitarsi col miraggio di improbabili futuri guadagni, facendo leva sull’amor proprio e la dignità di chi, dopo tanti anni e una tradizione familiare alle spalle, farebbe di tutto pur di non abbassare la saracinesca. Altro che aiuti alle aziende.

La verità è che senza aiuti veri molte aziende saranno costrette a chiudere a o ridurre l’attività e licenziare il personale. Seguirà allora un aumento dei disoccupati (imprenditori, autonomi, professionisti) e ci sarà una vera e propria rivoluzione del sistema socio economico. E non solo.

Quindi cosa fare? Ritengo che l’unica soluzione per salvare aziende e dipendenti resti quella di contrastare la caduta dei ricavi causata dalla pandemia attraverso la riduzione sia delle imposte che dei contributi da pagare all’INPS e che lo Stato potrebbe fiscalizzare, nel senso che potrebbe sostituirsi al datore di lavoro nel pagamento dei contributi per il personale (in tal modo non si pregiudicherebbero le future prestazioni previdenziali e assistenziali dei lavoratori). Solo così le aziende potrebbero restare aperte e non licenziare il personale.

Ma c’è di più. Così facendo lo Stato spenderebbe addirittura meno dei centinaia di miliardi stanziati per garantire i (dannosi) prestiti alle aziende.

Ed infatti, se è vero che in questo modo lo Stato incasserebbe meno tasse e dovrebbe pagare i contributi sociali all’INPS in luogo dell’impresa, è anche vero che se le aziende chiudessero e licenziassero i dipendenti lo Stato incasserebbe poco o nulla, semplicemente perché non vi sarebbero più redditi da tassare in quanto diventati tutti disoccupati: imprenditori e lavoratori. Non solo. Di fronte a questo nuovo esercito di disoccupati lo Stato sarebbe costretto poi ad aprire i cordoni della borsa per pagare indennità varie di disoccupazione e redditi di cittadinanza a tutti. Per non parlare naturalmente degli effetti, molto più devastanti, che la scomparsa o l’impoverimento di tante aziende avrebbe sugli equilibri socio economici della nazione.

C’è poi un intervento a costo zero. Sappiamo che commercianti ed artigiani versano oggi all’INPS un contributo previdenziale annuo pari a circa il 24% del reddito dichiarato. L’INPS però pretende un versamento minimo di 4.000 euro anche nel caso in cui l’azienda non produca redditi o chiuda addirittura in perdita. Una vera assurdità e palese ingiustizia che andava da tempo eliminata. Ed allora si potrebbe fare in modo che tutti questi lavoratori autonomi versino i contributi solo sul reddito effettivamente conseguito, come avviene oggi per tutti i lavoratori dipendenti, e non su redditi inesistenti. Sembra poco, ma di questi tempi anche risparmiare 4.000 euro aiuta.

Concludendo, ritengo che il decreto che favorisce i prestiti alle aziende non serve e in molti casi può addirittura rivelarsi dannoso per chi li richiede. Occorre invece aiutare le aziende attraverso l’abbattimento di tasse e contributi. Non per sempre certo, ma almeno per quest’anno e in misura ridotta per il prossimo. Solo così si potrà evitare la distruzione del nostro sistema produttivo fatto soprattutto di piccole aziende commerciali e artigianali e salvaguardare i livelli occupazionali. Ed allora, passata la tempesta, le aziende potranno davvero tornare pian piano a produrre utili e a pagare le tasse. Incoraggiarle ad indebitarsi è atto miope e controproducente per tutti, perché serve solo a prolungarne l’agonia e a rassegnarsi al declino

18 aprile 2020

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